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Sei anni di umiliazioni a scuola perché gay

Andrea non era mai stato deriso. Era ben inserito nella classe. Aveva collaborato lui stesso alla creazione della pagina Facebook in cui veniva deriso... insomma, non è stato il bullismo omofobico a spingerlo al suicidio. Sono queste alcune delle affermazioni che si sono sentite pronunciare nelle ultime settimane in seguito alla vicenda del 15enne romano che ha deciso di togliersi la vita.
Se i veri motivi forse non li sapremo mai, quel che stupisce è la corsa al negare che nelle scuole italiane possa esistere un qualsiasi problema legato all'omofobia. Eppure non passa giorno senza che nuove testimonianze e racconti evidenzino che il problema c'è ed è attuale. E, forse, sarebbe bene anche parlarne per far sì che gli adolescenti possano sapere che le loro battute o parole possono segnare indelebilmente i propri coetaneo.
L'ultimo racconto arriva dalle pagine di Repubblica e riguarda la storia di un ragazzo di Udine che oggi ha vent'anni.
«Primo anno, avevo 14 anni -racconta- Mi ero accorto di essere gay da due anni. Mi confido con una compagna, la mia migliore amica. Lei lo dice a un altro e si sparge la voce. E la palla di neve inizia a rotolare. Per sei anni, fino a oggi che ne ho venti, posso dire che là dentro, a scuola, ho passato, e sto passando, gli anni peggiori. Non è che le battute sono finite, è che io reagisco.
Dopo l'outing forzato della mia amica, ho subito per cinque anni. In silenzio. Me ne hanno dette e scritte di tutti i colori, un ragazzo una volta, uno che mi piaceva mi ha detto "se fossi i tuoi genitori ti ripudierei come figlio". È la frase che mi ha ferito di più. Forse si è accanito per togliersi dall'imbarazzo di piacermi. Provavo odio, anche se è brutto dirlo. Gli omofobi non sono fantasiosi. Sto prendendo una cosa alle macchinette, uno si dà di gomito con un altro, un altro si mette le mani sul sedere, un altro cammina strisciando con la schiena sul muro. Col passare degli anni quell'ignoranza si è riprodotta autoalimentandosi. In terza mi bocciano e cambio classe. Penso: gente nuova, non ci si conosce, bòn… Me ne sto tranquillo sei mesi. I miei genitori non sapevano ancora niente. Ma mi vedevano sempre giù, preoccupato, depresso.
Conosco una nuova amica, la mia ancora di salvezza. Mi dice: "Parla coi tuoi genitori". Non ero pronto. Ero riuscito a dirlo a qualche amico, ma a scuola era sempre la solita musica. La vedevo e la vedo ancora come il posto delle sofferenze, delle umiliazioni. Ma intanto avevo preso un po' più di sicurezza. Un anno e mezzo fa lo dissi ai miei. Porto a casa una pagella disastrosa, seconda bocciatura. Mi chiedono: "Cos'hai? ti droghi?". Mio padre fa: "Sei gay? No". Un giorno arriva, prende un bel giro di parole per farmi la stessa domanda. A quel punto racconto. Lui si mette a piangere, ma è contento. "Finalmente dopo 18 anni conosco mio figlio".
Prende contatti con l'Arcigay di Udine, mi dice: "Se un giorno ti va di fare due chiacchiere…". È stato un grande. Decidiamo, di comune accordo, che la cosa resta in famiglia. All'istituto tecnico, sia insegnati che preside fanno finta di niente, per loro il problema, sul fatto che i compagni mi prendono di mira per la mia "diversità", non esiste. Mi sbatto per portare anche nella mia scuola il corso (tra i primi in Italia) organizzato dall'ufficio scolastico regionale e dall'Arcigay per sensibilizzare sul bullissimo omofobico. La preside dice: "Il fenomeno qui non esiste". Quando sa benissimo che non è così. C'è un'omertà diffusa».


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