Russia: la famiglia e gli amici del 23enne ucciso e sodomizzato con una bottiglia negano che fosse gay
A poche ore dalla notizia dell'uccisione in Russia di un giovane 23enne, pare aggredito e torturato dai suoi stessi amici dopo il suo coming out, la vicenda si è arricchita di nuovi dettagli.
Si è appreso che la vittima si chiama Vladislav Tornovoi ed i giornali riportano un nuovo agghiacciante dettaglio: prima di essere stato sodomizzato con una bottiglia, a Vladislav erano stati mutilati gli organi genitali. Un dettaglio che non fa che accrescere l'ipotesi di un omicidio a sfondo omofobo, anche se i suoi genitori e i suoi amici pare stiano facendo di tutto per negare quell'ipotesi.
Già, perché anziché chiedere giustizia e pretendere che i responsabili siano assegnati alla giustizia, chi ha vissuto al suo fianco pare molto più interessato a cercare di dimostrare che lui non fosse gay. Una situazione già vista in molti altri casi (ricorderete come anche in Italia si sia corso per negare l'omosessualità del 15enne morto suicida a Roma) e che spesso condanna le vittime ad una doppia condanna e alla negazione di poter essere riconosciuti per ciò che si è anche dopo al morte.
I vari «L'ho visto anche in compagnia di ragazze» o «A me non ha detto nulla» sembrano perdere di significato in un Paese dove si può finire in carcere per la propria sessualità o dove solo 1% della popolazione non manifesta astio nei confronti dei gay. Se i suoi amici più fidati l'hanno condannato a morte per il suo essere gay, davvero si può pensare che in quel clima un ragazzo non si senta costretto a nascondere la propria sessualità?
Il timore è che una famiglia possa arrivare a preferire di avere un figlio morto che un figlio gay o che ci si senta in dovere di negare tutto il negabile pur di "salvarne" l'immagine agli occhi degli stessi carnefici. Perché, al di là degli esecutori materiali, omofobi ed esponenti della Chiesa Ortodossa non possono che essere ritenuti i veri responsabili di quanto accaduto.