La Russia vuole chiudere anche l'ultima associazione ancora attiva che fornisce aiuto agli adolescenti gay
«L'odio omofonico ha trasformato la vita dei teenager lgbt in un inferno, danneggiando la loro psiche. I teenager a sono le vittime più vulnerabili dell'omofobia». È quanto dichiara la giornalista russa Yelena Klimova, fondatrice del progetto Children 404 (l'ultima associazione russa ancora attiva che offre aiuto a teenager lgbt).
Ora la autorità hanno deciso di colpire anche quell'iniziativa e l'accesso alla loro pagina Facebook del progetto è già stato inibito. Le agenzie governative hanno anche annunciato l'intenzione di voler processare la giornalista per aver infranto le norme sulla cosiddetta «propaganda gay», sostenendo di non aver agito di propria volontà ma sulla base di «150 denunce provenienti da privati cittadini ed associazioni».
La Rosknadzor, ovvero il servizio federale russo di controllo della comunicazione, è andata oltre ed accusa la giornalista di non avere le giuste competenze per poter aiutare i giovani lgbt: «È la nostra profonda convinzione -dicono- che i problemi dei ragazzi riguardo la loro socializzazione, crescita, identificazione personale debba essere in mano a professionali, persone aventi un diploma, istruttori, psicologi, medici e giuristi». Dal canto suo la Klimova replica: «Ma se questi problemi devono essere trattati da professionali e non da amatori come me, dove sono i professionali? Dove li mandiamo 'sti ragazzi bisognosi di aiuto? Li mandiamo ai personaggi che hanno ideati la legge della propaganda gay? Oppure li mandiamo in monastero?».
Da sottolineare è anche come l'accusa di mancanza di professionalità non regga: il progetto Children 404 si si è appoggiato sulla collaborazione tanti psicologi volontari ed è evidente che il problema sia il tipo di risposta che questi specialisti hanno fornito. Lo stato, infatti, preferisce dare voce ai medici compiacenti che indicano l'omosessualità come un disordine da curare con terapie, la risposta che vorrebbero imporre ai ragazzini e alle ragazzine che attraverso le pagine Facebook del progetto hanno dato libero sfogo a tutta la loro disperazione e dolore nel non essere essere accettati da una società intollerante.
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