Lettera ad un omofobo
È lo scrittore Pierpaolo Mandetta, che abbiamo rincontrato qualche mese fa in occasione dell'uscita del suo romanzo Cuore satellite, ad aver deciso di scrivere una lettera rivolta ad un qualsiasi omofobo. La sua speranza è che che le persone che hanno sofferto molto possano trarne qualche pensiero positivo.
Non sai cos’è un padre che scuote i capelli agli altri figli, solo perché tu non giochi al suo maledetto pallone;
Non sai cos’è la prima vera bugia, e le guance rosse quando i parenti di Natale si aspettano che baci sulla guancia quella bambina tutta emozionata. Ma a te non va, e nella tua testa comincia la lotta alle anomalie. Come quando vorresti i giocattoli di un colore che qualcuno ha deciso sarà per femminucce;
Non sai che vuol dire sognare tra i banchi e non potersi buttare, scrivere biglietti leziosi o provarci durante la gita agli scavi. Non sai cos’è vedere gli altri svilupparsi nel seno e nei muscoli, baciarsi davanti alla scuola, diventare giovani adulti e creare branchi d’amicizia. Tra risate sul muretto e mani intrecciate. Mentre tu vivi nell’attesa di uno sbaglio che non passa mai. E perdi gli anni dell’esperimento, della licenza a fare gli sciocchi che scadrà dopo il diploma. E insieme ai primi amori messi in pausa e soffocati, sorvoli pure l’adolescenza. Le dici addio senza averla assaggiata;
Non sai cos’è uscire quando tutti vanno a letto, le chiavi prese nel silenzio e le fughe d’auto dove i lampioni sono spenti. Nelle notti di pioggia, le migliori perché nessuno può guardare oltre il bagnato, e nel pericolo di una strada isolata. Dove qualcuno che ancora non conosci forse passerà. Non sai com’è aspettare nel terrore i primi fari in lontananza, e sperare che non sia un carabiniere o un delinquente che ti sfila il portafogli, ma qualcuno che si nasconde tra i cespugli come te. A cui poter rubare un bacio da portarti a casa. Striminzito, pregato, svogliato, purché sia qualcosa con cui fare finta che interessi a un’altra persona;
Non sai cosa vuol dire una madre che ti chiede di non dare nell’occhio, e un padre che ti vorrebbe più virile per non scomodare le opinioni degli amici. Non sai com’è non sentirsi mai all’altezza, e poi anche di troppo nella casa in cui sei nato. Leggere la speranza dei genitori perché tu te ne vada, portandoti dietro la vergogna loro e tua. Non sai cosa vuol dire sporcarsi col tormento di dove andresti a vivere, se dovessero cacciarti di casa, anteponendo la mera sopravvivenza all’affetto familiare. Non sai di che colore è fatta la scelta di abbandonare la propria terra per poter essere se stessi. Cominciare a spuntare la lista di tutte le cose rimandate, che farai piano piano nei tempi sbagliati. Come i primi appuntamenti a venticinque anni, quando gli altri già si sposano e ti chiamano immaturo;
Non sai cosa vuol dire avere un’etichetta addosso, incollata da chi per un credo religioso si crede differente da te e dunque prioritario in ogni campo. Non sai cosa vuol dire svegliarsi ogni giorno e sentirsi un caso di studio, materia discussa come un malanno, una moda che viaggia, un danno alle casse dello stato o peggio ancora una disgrazia per bambini. Non sai cosa significa subire consigli sull’educazione infantile da un asessuato nel nome di Dio, e stare in mezzo a un popolo che dà più credito al marcio sotto quella tunica, piuttosto che all’amore che hai da dare;
Non sai la sensazione di non avere i mezzi per invaghirti come fanno tutti. Non sai com’è stare in un bar, sorridere a qualcuno in fondo e non potergli lasciare il tuo numero, perché chissà se corrisponde o ti dà a schiaffi. Non sai com’è rinunciare alla spontaneità del caso e agli impulsi genuini, ma dover costringere i propri desideri in un locale a tema o in una chat in cui nessuno ti rivela il proprio nome per paura;
Non conosci l’ansia di tenersi per mano, o ritirarsi soli e a piedi, perché potresti ritrovarti accerchiato da una banda a mazze tese. Ritrovarti con la faccia spaccata sull’asfalto e nessuno a cui chiedere aiuto, nessuno che ti presta soccorso, nessuno che osa girarsi a causa del disagio. Non sai cosa sono lividi e ferite per cui nessuno pagherà, perché l’omofobia non ha reato, né volti, né giustizia. E prosegui nella vita col sospetto e le lacrime pronte, accettando che certi mali hanno solo vittime e mai colpevoli;
Non sai com’è sentirsi privati fin dal principio della libertà d’unione, e non diventare mai adulti per davvero. Non poter rincorrere gli istinti della tradizione umana e biologica, ma ascoltare dai politici e dalle masse che non avrai mai diritto alla felicità in due. Come goccia dopo goccia, che le tue emozioni sono solo frutto di una deformazione. Poi, quando stanco ti riversi su quello che rimane, perfino sentirsi chiamare pervertiti. Perché questo mondo ti ha accordato solo il sesso, ma lo ha fatto per ricordarti che a te interessa quello e basta. E dopo aver convinto tutte le generazioni che per te e la tua gente non c’è altro, e non ti spetta alcuna forma di emozione, ti convinci a farti bastare il piacere più rapido che c’è. Già macchiato di tutte le calunnie, dell’odio e della malinconia. E fai sesso perché così hanno stabilito. Fai sesso perché non hai educato il cuore ad altro. Fai sesso in una stanza buia in mezzo ai corpi, così che nessuno ti veda e possa giudicarti ancora. Fai sesso per sentire finalmente quella cosa. La condivisione. Sofferta, agognata, sbranata condivisione di te stesso;
Non sai cos’è superare i trent’anni e non avere un diritto legale, già in possesso di tutti alla nascita ma non per te. Nonostante tu abbia cercato di dimostrare al mondo più del dovuto. Da quando cominciasti a supplicare una piccola lode a tuo padre, il perdono per i nipoti che non avresti dato a tua madre. La stima dei colleghi sul lavoro, uno stipendio con cui sentirti a posto con le tasse e il profilo di un decente cittadino. E nonostante questo, tu non sai cos’è sentirsi chiamare “i gay” in televisione. Neanche al singolare, neanche un nome col cognome. Solo “i gay”, senza i diritti per cui già paghi quelli degli altri;
Non sai com’è invecchiare nell’eco di una casa vuota. Perché dopo un’esistenza ad ascoltare crudeltà o motivi per cui non saresti idoneo a comporre una famiglia, nessuno ha più avuto la forza e l’audacia di credere in se stesso. Di legarsi, di scegliere un’altra persona con cui iniziare l’avventura dell’ultimo pezzetto di storia. Perché tanto non si chiama matrimonio, non ci sono figli e se la tua metà finisce in ospedale non puoi restarle accanto. E allora se non esisti per nessuno, piano piano non esiste neppure per te stesso e ti abbandoni alla solitudine;
Tu non sai molte cose. Non sai quasi niente. Ma tutti i giorni ti aggrappi al sacrosanto privilegio di dire la tua e mi spezzi il cuore. Non ci siamo neanche mai visti, eppure mi devasti la vita. Incurante, com’è la tua specie e pure la mia. Incurante. Che se tutti smettessimo di esserlo, nei confronti di chi ci vive intorno, non ci resterebbe che la pace.