La strana concezione della "libertà di parola" di Silvana De Mari

Silvana De Mari sostiene che il suo diritto di parola debba poterle permettere di dire tutto ciò che le passa per la mente senza alcuna necessità di tener fede alla verità o al rispetto del prossimo. Dice che sia un suo diritto il poter andare in giro a raccontare che i gay sono esseri anormali o spergiurare che si lancino addosso estremanti quando fanno sesso.
Con fare propagandistico, parla di «dittatura» o di «totalitarismo» ogni qualvolta qualcuno osi osservare che i suoi racconti siano falsi e che non si ha piacere nel vederla andare in giro a diffamare e a raccontare falsità sulla vita altrui. Ed è con la sua solita arroganza e vittimismo che lei replica:

Occorre essere liberali: se io penso che il vostro sia un disordine, un’incompletezza, a voi cosa vi cambia? Se io e gli amici miei pensiamo che San Paolo avesse ragione, a voi cosa vi cambia? Ve ne importa così tanto di essere approvati da tutti e sempre? È così irrinunciabile?

Al di là che appare squallido attribuire parole e pensieri a persone a qualcuno che è morto migliaia di anni fa e che non può replicare, basterebbe sfogliare le pagine di cronaca per comprendere che se ci sono madri pronte ad ammazzare i propri figli a coltellate solo perché gay, allora è grave che persone come lei creino quell'odio che rende possibili simili crimini.
E fa ridere anche come la donna attacchi chi protesta, mentre contemporaneamente dice che nessuno deve poter avere opinioni contrarie alle sue, mentre il suo avvocato già annuncia denunce a chiunque osi avere opinioni diverse dalle sue. Insomma, è in una sorta di distrofia che l'ex collaboratrice di Adinolfi dice di voler "difendere" la libertà di opinione mentre esige la censura di chiunque non sia d'accordo con lei.

Se poi si analizzano i suoi scritti, non pare difficile comprendere come il suo riferimento alle lettere di Paolo riguardi i violenti proclami di don Pusceddu, il sacerdote sardo che reinterpretava quelle scritture per invitare i suoi parrocchiani a sostenere che «i gay meritano la morte». Ed anche qui pare evidente che a qualcuno debba interessare se una scrittrice per bambini racconta a dei minori che devono uccidere i gay, nonostante persino l'arcivescovo di Cagliari si fosse mosso per condannare quelle parole e quella strumentalizzazione delle scritture.

Altrettanto discutibile è poi il fatto che si possa parlare di opinione quando nei suoi proclami ci si imbatte costantemente in frasi come «da medico dico che» o «da medico sentenzio che». Se si usa un titolo accademico quale garanzia di una frase discriminatoria, pare ovvio che l'Ordine di competenza debba poter intervenire dopo essere stato tirato in ballo per proclami di promozione della morte. E vien da sé che una donna che non accetta le tesi scientifiche e che si rifiuta di discuterne con altri medici perché sicuramente i fan di Adinolfi saranno più propensi ad accettare le sue legittimazioni "scientifiche" dell'odio omofobico, si auna donna che sta cercando di far del male alla società attraverso modalità incompatibili con una società civile.

Dal punto di vista legale, invece, sarebbe opportuno osservare come il diritto alla libertà di parola sia da considerarsi illimitato: i governi possono, sotto l'aiuto delle Nazioni Unite e dei Paesi che vi prendono parte, decidere di limitare particolari forme di espressione, come per esempio l'incitamento all'odio razziale, nazionale o religioso, oppure l'appello alla violenza contro un individuo o una comunità, che anche nel diritto italiano costituiscono reato.


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