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I giudici negano gli atti processuali di due mamme al leghista Pillon e alle associazioni anti-gay da lui rappresentate

I giudici hanno riconosciuto i timori espressi da due mamme pisane ed hanno vietato l'accesso ai dati processuali al senatore leghista Simone Pillon e alle associazioni omofobe da lui rappresentate.
La vicenda ha avuto inizio lo scorso marzo, quando il Tribunale di Pisa si era rimesso alla Corte Costituzionale al fine di verificare se il divieto di riconoscere le due mamme di un bambino nato a Firenze non violasse i loro diritti fondamentali. A difendere la loro discriminazione e a battersi loro figlio fosse reso orfano di madre, traovammo il solito Simone Pillon. Questa volta il senatore leghista si è presentò a rappresentanza dell'associazione "Vita è", ossia della struttura-ombrello che include e raggruppa le organizzazioni fondamentalista di Toni Brandi, Gianfranco Amato e Massimo Gandolfini. Al suo fianco c'era anche il solito Centro Studi Livatin, il braccio armato della giurisprudenza integralista che da anni si batte per negare i diritti civili di gay e lesbiche.
Dato che negli atti processuali sono indicati dati personalissimi che le due donne temevano potessero essere utilizzati a fini illeciti dal fondamentalismo, è attraverso l'avvocato Alexander Schuster che hanno chiesto ed ottenuto un blocco all'accesso al materiale processuale da parte dei loro antagonisti.
Viva soddisfazione è stata espressa dall’avvocato Schuster, che ha dichiarato: «Questa prassi aveva sollevato dubbi in me sin dalla mia prima esperienza in Corte costituzionale nel 2010 con la sentenza sul matrimonio gay. Essa consentiva fino a ieri ad associazioni contrarie ai diritti delle donne e delle minoranze l’accesso senza filtro a informazioni assolutamente personali. Spero anche che ora associazioni che intervengono a supporto siano indotte più di prima a coordinarsi con chi cura la difesa dei diretti interessati. Nel caso di specie, si è appreso dell’intervento di tutte le associazioni, inclusa Rete Lenford, in cancelleria. Appare difficile fare un fronte comune senza un minimo di dialogo fra colleghi».


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