Il Consiglio d’Europa ha rigettato il cosiddetto “accomodamento ragionevole” in materia di religione

«Siamo molto contenti dell’esito del voto dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa in materia di protezione della libertà di religione o credo sul posto di lavoro: c’è da tirare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo perché in ballo c’era il principio di non discriminazione, la libertà di coscienza nonché i diritti di alcuni tra i membri più vulnerabili della società». Così Roberto Grendene, segretario dell’UUaar, commenta il voto dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa che ha rigettato la raccomandazione sulla “Protezione della libertà di religione o credo sul posto di lavoro” e ha approvato una risoluzione in materia che non contiene il concetto di “accomodamento ragionevole” (“reasonable accommodation”).

«In parole povere –prosegue Grendene– nella loro versione iniziale risoluzione e raccomandazione miravano a introdurre nella legge degli Stati membri il concetto di "accomodamento ragionevole" in materia di credo e religione, vale a dire l’obbligo per i datori di lavoro di accogliere le richieste dei dipendenti basate su credenze religiose. Il concetto nasce in seno alla convenzione dei diritti umani Onu in materia di disabilità, ambito nel quale è comprensibile e condivisibile. Diverso però il caso delle convinzioni religiose, ambito nel quale la sua applicazione configurerebbe un evidente privilegio che lede il principio di eguaglianza. Dietro il falso pretesto di combattere la discriminazione, questo “accomodamento ragionevole” doterebbe infatti le rivendicazioni basate sulla religione di uno status privilegiato, minando così la parità tra tutti i cittadini, i diritti fondamentali e le libertà individuali».
«Non solo -spiega ancora Grendene- concedere un maggior peso ad alcune pretese, solo perché motivate da credenze religiose, pone particolarmente a rischio i diritti sessuali e riproduttivi femminili e i diritti civili delle persone LGBTIQ+. Si ricorre infatti spesso ad argomentazioni di natura religiosa per discriminare in base al genere e all’orientamento sessuale, o per giustificare il rifiuto di prestazioni sanitarie legate alla salute riproduttiva. Lo sappiamo bene in Italia, dove una forma di “accomodamento ragionevole” ante litteram, quale è stata la previsione dell’obiezione di coscienza nella legge 194, si è trasformata in un ostacolo irragionevole all’autodeterminazione delle donne, stigmatizzato dallo stesso Consiglio d’Europa, fonte di sofferenze, umiliazioni e anche di vere e proprie tragedie. Creare ulteriori “accomodamenti ragionevoli” religiosi sul luogo di lavoro rischia inoltre, paradossalmente, di creare restrizioni alla stessa libertà di coscienza che si pretende di voler difendere: se si concede un privilegio, ad esempio la celebrazione di un atto di culto in orario lavorativo, ai fedeli di una certa religione, di fatto si obbligano i lavoratori a manifestare la propria appartenenza religiosa con la scelta di partecipare o meno, fattispecie grave in sé e già condannata dalla Corte dei Diritti dell’Uomo (Alexandridis contro Grecia, 21/2/2008), tanto più nel caso di eventuali apostati non dichiarati, costretti ad aderire per non subire ritorsioni dalla comunità».


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