Seoul. Un 29nne asintomatico si è recato nel quartiere gay e la chiesa evangelica ne ha approfittato per fomentare una caccia ai gay

Nella città sudcoreana di Seoul, Itaewon è il quartiere “degli stranieri” ed al suo interno c’è una piccola zona lgbt-friendly detta “homo hill”. È lì che, durante la notte fra l'1 e il 2 maggio, un giovane 29enne asintomatico si è recato in tre bar del quartiere. Quando il giovane è risultato positivo al Covid-19, le autorità sono andate nei bar a raccogliere oltre 5.500 nomi dei frequentatori, hanno ordinato alle compagnie telefoniche di tracciare chi era stato nella zona e hanno ottenuto i dati dei possessori di carte di credito che avevamo effettuato pagamenti in quell'area.
È è quel punto che la chiesa evangelica ha sfruttato l'occasione per lanciare un linciaggio mediatico attraverso il loro quotidiano Kookmin Ilbo: in un Paese dove essere gay può significare ritrovarsi a perdere il proprio lavoro, gli evangelici hanno pubblicato la lista dei nomi raccolti dalla polizia ed hanno iniziato a cercare di sostenere che i gay siano untori.
Quando si è poi scoperto che uno dei nuovi infetti era stato in una sauna, il livello di attacchi omofobi da parte della stampa è cresciuto a dismisura.

Il 29enne ora teme per la sua incolumità e racconta che non sarebbe dovuto andare lì anche se «l’unica maniera di essere me stesso. Il resto della settimana devo far finta che mi piacciano le donne». Altri spiegano di aver paura dei controlli perché i dati vengono comunicati alle aziende e «se mi faccio il test, la mia impresa scoprirà che sono gay: perderò il lavoro e affronterò una umiliazione pubblica. La mia vita sta per collassare. Non avevo mai avuto istinti suicidi finora, ma ora sì».


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