Elisa Pomarelli: le lesbiche prendono parola
Ad un anno di distanza dalla morte di Elisa Pomarelli (avvenuta il 25 agosto 2019) e a pochi giorni dalla riapertura della discussione in Parlamento sulla legge contro l'omolesbobitransfobia, le associazioni e le soggettività lesbiche prendono parola per denunciare che l'uccisione di Elisa è un femminicidio e un lesbicidio (crimine d'odio di matrice lesbofobica), e come tale, deve essere riconosciuto. Il documento politico scritto da ALFI - Associazione Lesbica Femminista Italiana, EL*C - Eurocentralasian Lesbian* Community, Lesbiche Bologna, Lesbicx e Rete Donne Transfemminista di Arcigay, sottoscritto da tantissime donne, lesbiche e non solo, associazioni, collettivi e realtà che si occupano di diritti civili, sociali ed umani, è un grido di allarme nei confronti della cultura sessista e lesbofobica nonché delle narrazioni tossiche di alcuni media che contribuiscono a diffondere una cultura dell'odio e un atto di accusa verso una società che invisibilizza e cancella l'identità lesbica e non riconosce la lesbofobia come violenza culturale, sistemica e strutturale.
Di seguito il testo:
Il 25 agosto 2019 Elisa Pomarelli è stata uccisa da Massimo Sebastiani, perché era lesbica e ha osato rifiutare le avances di un uomo che credeva suo amico. È stata punita perché rivendicava il suo diritto ad autodeterminarsi, a esprimere la propria identità e a scegliere liberamente le sue relazioni. Quello di Elisa è un femminicidio e un lesbicidio.
Ora, a un anno dalla sua morte, comincia un processo in cui, nel migliore dei casi, si rischia venga fatta giustizia a metà. L'assassino ha infatti potuto chiedere ed ottenere l’ammissione al rito abbreviato con la riduzione di pena correlativa. Una opzione che, nei casi di omicidio aggravato tutelati dal “codice rosso” (c.d. femminicidi), gli sarebbe stata negata. Ciò anche perché l'aggravante di lesbofobia non gli è stata contestata in mancanza, ad oggi, di una legge specifica. L’assassinio di Elisa non puó dunque essere riconosciuto né come femminicidio, né come lesbicidio, crimine d'odio di matrice lesbofobica, quando è entrambe le cose.
Elisa non è stata uccisa solo in un modo. Nei giorni successivi al suo femminicidio, i media italiani avevano fatto ipotesi su una possibile relazione tra lei e il suo assassino, parlando di «gigante buono», «gioco pericoloso», «amore non corrisposto». Poi, quando il suo orientamento sessuale è stato reso pubblico, improvvisamente si è detto che la vita personale della vittima doveva essere protetta, che non bisognava supporre, né etichettare Elisa che aveva solo 28 anni e forse avrebbe anche potuto cambiare idea. La deontologia giornalistica prevede di non rivelare dati sensibili, tra cui l'orientamento sessuale, a meno che non siano di fondamentale importanza per poter offrire al pubblico un'informazione.
Queste regole non vengono rispettate quasi mai, basti pensare a titoli come «Delitto gay» o ai continui riferimenti al sesso assegnato alla nascita delle persone trans nelle notizie in cui non c’entra alcunché, ma vi si fa appello solo se a dover essere nominato è il lesbismo. Molte testate hanno scelto di cancellare l'identità, la storia e le scelte di Elisa, invisibilizzandola in quanto lesbica, e con lei, noi tutte.
Come tutte le soggettività che sovvertono l'ordine patriarcale con la loro stessa esistenza, anche noi lesbiche non dobbiamo essere nominate, oppure si cerca di impossessarsi delle nostre storie, travisandole così che la nostra identità risulta un dettaglio irrilevante e la parola lesbica è utilizzata solo come insulto.
Di fronte a questa tragedia è importante domandarsi come sia potuto accadere.
Il lesbicidio di Elisa Pomarelli è anche il risultato della lesbofobia strutturale che permea l’intera società.
Ogni giorno sentiamo storie di ragazze e donne aggredite per le strade perché si scambiano un bacio. Sentiamo parlare di ragazze, anche giovanissime, che vengono allontanate dalle loro famiglie o costrette a sottoporsi a terapie riparative perché considerate malate. Leggiamo di stupri correttivi, inflitti da padri e parenti, alle lesbiche. Sappiamo che alle lesbiche migranti viene chiesto di dar prova del loro orientamento quando fanno richiesta di asilo. Sappiamo delle violenze subite dalle lesbiche con disabilità, le cui esistenze vengono sistematicamente negate. Non contiamo più gli episodi di bullismo nelle scuole, i licenziamenti, il mobbing e le molestie sessuali nei contesti professionali.
La violenza lesbofobica affligge quotidianamente le lesbiche in tutti gli ambiti della vita e può sfociare, come nel caso di Elisa Pomarelli, nella tragedia peggiore, l’assassinio.
Questa violenza non è più tollerabile e la denunciamo con forza, perché il silenzio e l’invisibilità non proteggono noi, ma i nostri oppressori.
Noi lesbiche ci sentiamo tutte coinvolte in questa vicenda dolorosa e ne riconosciamo la matrice sessista e lesbofobica. Siamo consapevoli che delitti come questo sono l’espressione più efferata di una violenza sistemica, che colpisce ogni giorno le donne e le lesbiche, alle quali non è garantita un’adeguata tutela.
In questo contesto è più che mai urgente approvare una legge che riconosca un’aggravante per i casi di violenza contro le lesbiche e le donne, come quella che si sta discutendo in questi mesi in Parlamento.
Pensiamo che questa legge, se approvata nella sua forma integrale, rappresenti un significativo passo in avanti, pur restando consapevoli che l’azione legislativa, da sola, non sia affatto sufficiente per contrastare i crimini d’odio di stampo omolesbobitransfobico, che vanno combattuti compiendo un radicale mutamento nella cultura e nella società.
Ognuna di noi avrebbe potuto essere Elisa. Per questo noi lesbiche ci rivediamo tutte nella sua storia: riconosciamo la misoginia e la lesbofobia che hanno mosso la mano dell'assassino e che viviamo sulla nostra pelle tutti i giorni.
La storia di Elisa avrebbe potuto essere quella di ognuna di noi.
Perché non si ripeta mai più, esigiamo di vivere in un paese dove sia possibile per le lesbiche e le donne restare libere di decidere delle proprie vite, rifiutare relazioni indesiderate, muoversi oltre le barriere geografiche, architettoniche e culturali senza correre il rischio di essere aggredite o uccise per questo.